La nostra cultura – e anche la scuola – non rende sempre troppa giustizia al Protestantesimo, a cominciare dal nome con cui questo variegato e complesso fenomeno religioso viene designato. Per evitare confusioni spesso i Protestanti stessi preferiscono essere definiti “Evangelici”.
Fin dalle scuole s’insegna ai bambini e ai ragazzi che Martin Lutero fondò la chiesa Protestante, o che egli fu il capo della chiesa Protestante (tutte cose fortemente imprecise, fra l’altro), ma raramente si cerca di comprendere il Protestantesimo nelle ragioni della sua nascita e del suo essere e nelle sue specificità.
E’ utile riallacciarsi all’esperienza di vita di Lutero, anche se essa dovrebbe essere inquadrata come il punto di partenza di un processo che ancora oggi non può dirsi concluso.
Dopo un’infanzia non facile, iscrittosi all’Università di Erfurt, ebbe occasione di consultare – cosa rara per quel tempo – un’edizione in lingua latina della Bibbia. Fu una scoperta; al pari di molti suoi contemporanei, egli non immaginava che la Bibbia fosse un’opera tanto vasta e complessa; tutto ciò che sapeva era limitato a quei pochi estratti che venivano letti durante le sacre funzioni. Colpito da tanta ricchezza, prese la decisione di consacrare l’intera sua vita al suo studio ed approfondimento e, per farlo, contro il volere del padre che lo avrebbe voluto avvocato, a diciotto anni entrò in convento. Fu un periodo di grande sofferenza, fisica e spirituale: terrorizzato dal pensiero del tormento eterno, Lutero fece tutto il possibile per meritarsi l’ingresso nel paradiso, attraverso opere buone, penitenze, digiuni di ogni tipo: il suo fisico ne rimase debilitato per tutta la restante sua esistenza. Eppure non riusciva a trovare la pace, e giunse sull’orlo della disperazione: nonostante tutto era convinto che la giustizia divina si ponesse su un piano molto più alto di quello che lui era riuscito a raggiungere, ed era convinto che la sua anima fosse perduta. La lettura dell’Epistola di Paolo ai Romani fu illuminante: egli “vide” che la giustizia di Dio è Gesù Cristo, e che quella salvezza inarrivabile attraverso penitenze e buone opere, era stata già acquistata da Cristo, e veniva imputata gratuitamente a colui che in Cristo ripone la sua fede.
Ordinato sacerdote, e inviato ad insegnare presso l’Università di Wittemberg, cominciò ad insegnare e predicare al popolo questo messaggio, e nel frattempo intraprese un’opera monumentale: la traduzione della Bibbia, che ancora oggi è considerato l’atto di nascita della lingua Tedesca moderna.
Un pellegrinaggio a Roma, il lusso e la dissolutezza che ritenne di osservare nella vita di monaci e preti, fecero su di lui una profonda impressione, e acuirono i suoi dubbi.
Tornato a Wittemberg, e conseguita la laurea in teologia, continuò nella predicazione, fino a quando scoppiò lo scandalo delle indulgenze. L’indulgenza è – nella teologia cattolica – la cancellazione della pena per il peccato. NON della colpa del peccato, per la cui remissione è sempre necessario il pentimento e – ove possibile (questo sempre secondo la teologia cattolica) – la confessione auricolare, ma della pena con esso collegato. Quando, infatti, il pentimento non sia “perfetto” – quando cioè esso non sia esclusivamente provocato dal dolore per avere offeso Dio – ma sia connesso anche, per esempio, con il timore della punizione, si ritiene che pur essendo stato il peccato in se stesso perdonato, colui che lo ha commesso debba tuttavia pagarne le conseguenze anche in termini di sofferenza spirituale: questo avviene in purgatorio, ma un’indulgenza può annullare in tutto (indulgenza plenaria) o in parte (indulgenza parziale) queste conseguenze. Nella predicazione del legato pontificio in Germania, l’ambigua figura di Tetzel, su questa sottile distinzione (che comunque era nota e chiara a Lutero) si sorvolava e si dava ad intendere che l’indulgenza fosse una buona scorciatoia per il paradiso. Lutero rifiutò di assolvere alcuni fedeli che, avendo comprato l’indulgenza, si erano andati a confessare da lui con tanto di bolla firmata dal messo pontificio: questi reclamarono il loro diritto all’assoluzione e chiesero la restituzione del denaro versato. Tetzel montò su tutte le furie e minacciò di mettere al rogo Lutero e chiunque avesse rifiutato di convalidare le indulgenze con l’assoluzione. Lo strappo era ormai vistoso e inevitabile. Le prediche di Lutero contro l’acquisto delle indulgenze si facevano sempre più veementi, e i concetti di fondo che in esse venivano espressi trovarono una forma scritta nelle celebri 95 tesi, che Lutero avrebbe affisso alla porta della cattedrale di Wittemberg la notte del 31 Ottobre del 1517 (alcuni storici sono oggi più propensi a credere che invece le avesse fatte pervenire al vescovo di Wittemberg), sfidando chiunque lo avesse desiderato a dimostrarne la falsità. Accusato di eresia, la città di Augusta fu designata per il processo: Lutero – munito di un salvacondotto imperiale – dovette fuggire da Augusta e si rifugiò in Sassonia, dove il principe Elettore lo prese sotto la sua protezione. Giunse poco dopo la bolla ufficiale di scomunica da parte di Roma, che Lutero bruciò pubblicamente.
Intanto un nuovo – giovanissimo – imperatore, Carlo V, era salito al trono, e all’ordine del giorno della prima dieta da lui presieduta (vale a dire la riunione coi principi e i dignitari di tutta la Germania), a Worms, c’era la questione di Lutero, un eretico protetto da un principe. L’autorità imperiale – dopo animate discussioni – confermò la condanna ecclesiastica, e Lutero, segretamente aiutato dal principe di Sassonia, passò circa un anno nascosto nella fortezza di Wartburg. Tuttavia l’atteggiamento prevalente nei principi fu quello di una relativa tolleranza, almeno fino alla successiva dieta di Spira del 1529, indetta dallo stesso imperatore Carlo V per imporre a tutti i principi tedeschi una più energica azione contro Lutero e i suoi seguaci; in quella stessa città già nel 1526 era stato promulgato – nel corso di una precedente dieta – un editto che garantiva una prima forma di libertà religiosa – che era piuttosto libertà dei principi di ammettere e tollerare nei loro territori la presenza e la crescita di comunità riformate. Ora, si voleva abrogare questo decreto, lasciando la libertà religiosa quale speciale privilegio solo di quegli stati che alla riforma avessero aderito prima della dieta di Worms, cioè – in buona sostanza – alla Sassonia. Davanti ad un tale proposito, i principi che avevano aderito alla riforma o che comunque erano simpatizzanti delle idee luterane, fecero causa comune, e dichiararono solennemente davanti all’intera assemblea: “Noi protestiamo dinanzi a Dio nostro unico Creatore, Redentore, Salvatore, il quale un giorno ci chiamerà in giudizio, e davanti a tutti gli uomini, che non siamo in alcun modo disposti ad accettare un’impostazione contraria a Dio, alla Sua Parola, alla Nostra coscienza e alla salvezza della anime nostre”
Da questa “protesta” – che nel linguaggio dell’epoca indicava piuttosto una solenne dichiarazione, una professione – venne applicato a questi principi – e dopo, per estensione, a tutti qui cristiani che ne avessero condiviso le idee – l’appellativo di “Protestanti” (che dunque, in effetti, sarebbe oggi più corretto definire “Professanti”) Una professione che era – al tempo stesso – professione di fede nella Scrittura, ma anche rivendicazione di una libertà – quella religiosa e di coscienza – che perviene alle sfere più alte della società umana.
Il primo paese europeo dopo la Germania dove la riforma – sia pure in forma diversa rispetto a quella luterana – penetrò fu la Svizzera. Qui essa fu soprattutto introdotta da un dotto prete di campagna, Ulrich Zwingly. Profondo conoscitore e studioso delle Scritture fin dai tempi dei suoi studi, all’università di Basilea (dove sembra che un suo insegnante, un certo Wittenbach, gli avesse per la prima volta predicato un messaggio dai contenuti molto simili a quello promulgato da Lutero in Germania), solo la Bibbia stabilì di avere come base per i suoi sermoni, dapprima nel convento di Einzelden, poi negli anni in cui detenne l’ufficio di predicatore nella Cattedrale di Zurigo. Le autorità ecclesiastiche non tardarono a ritrovare nelle sue prediche le stesse – scomode – tematiche che già avevano udito in Lutero, e decisero di correre ai ripari: dapprima tre delegati del vescovo di Costanza chiesero ufficialmente al Concilio di Zurigo (una sorta di mini parlamento che reggeva le sorti della città) di procedere contro Zwingly: il concilio, sentito anche il diretto interessato, respinse la richiesta, e Zwingly fu ufficialmente sfidato a sostenere le sue tesi in una disputa pubblica, a Baden. Temendo una trappola però, non vi si recò di persona, ma si fece rappresentare da due suoi seguaci – che per dire il vero, la storia ricorda come piuttosto mediocri: Ecolampadio e Haller; mentre a sostenere la causa di Roma era stato mandato uno dei teologi e predicatori più brillanti del tempo: Giovanni Eck. Dopo un dibattito protrattosi per diciotto giorni, la vittoria venne assegnata a Eck, e la riforma zwingliana venne ufficialmente scomunicata. Fu la guerra civile fra i cantoni Cattolici e quelli Protestanti, nel corso della quale, sul campo di Cappel, lo stesso Zwingly perse la vita, seguito di lì a poco tempo da Ecolampadio.
Dopo la Germania e la Svizzera, fu la volta della Francia. Qui idee molto simili a quelle luterane erano state dapprima insegnate dai sacerdoti Lefevre e Guillaume Farel. Sembrava che la stessa famiglia reale, Francesco I e soprattutto sua sorella Margherita, provassero una forte simpatia per la nuova fede. Anche alcuni alti esponenti del clero cattolico si unirono a loro, fra cui si deve almeno menzionare il Vescovo di Meaux, cui si deve la prima edizione e diffusione del Nuovo Testamento in Francese. Tuttavia, posto sotto fortissime pressioni, abiurò. Ma – su questo terreno, in qualche modo già predisposto, s’innestò l’opera formidabile di Giovanni Calvino; studente a Parigi, destinato al sacerdozio, udì le dottrine luterane da suo cugino, Olivetano, e – dopo un iniziale rifiuto, le fece proprie, e incominciò a predicarle. Condannato al rogo, fu tempestivamente avvertito da alcuni amici e grazie ad una precipitosa fuga notturna riuscì a sfuggire alla polizia e trovò rifugio nei possedimenti della sorella del Re, Margherita, dove continuò la sua opera di predicazione. Quando minore fu il rischio, proseguì tale opera nell’importante università di Poitiers, e – successivamente – tentò di nuovo, con scarso successo, a Parigi. Dati i risultati non proprio incoraggianti, lasciò la Francia per la Germania, e subito dopo la sua partenza in Francia scoppiò la persecuzione: Francesco I decise di ergersi a campione del Cattolicesimo e ordinò una spietata caccia ai Protestanti in tutto il regno. Ma i due massimi esponenti della riforma Francese, Farel e Calvino, erano fuori dei suoi domini, e ben presto si rincontrarono nella città svizzera di Ginevra, che riuscirono – in alcuni anni – a far aderire alla Riforma. Il particolare ordinamento giuridico delle città stato svizzere consentì loro di prendere in mano anche le redini del governo politico cittadino, e Ginevra divenne ben presto centro propugnatore della Riforma Protestante, ed anche città di rifugio per le migliaia di protestanti che in tutta Europa si trovavano in quegli anni a dover scegliere fra l’abiura, la morte e il volontario esilio: un esilio che molti decisero di trascorrere a Ginevra. Molti stati del nord Europa aderirono in maniera meno conflittuale alla fede riformata (l’Olanda, la Danimarca, la Svezia…), mentre l’adesione della Gran Bretagna alla riforma avvenne- come è noto – in maniera molto diversa e per l’iniziativa di un sovrano spinto più che da zelo e fervore religioso, dalla ricerca di una facile scorciatoia per poter divorziare dalla moglie, Caterina d’Aragona, e sposare Anna Bolena (cui seguiranno diverse altre mogli, nell’affannosa quanto inutile ricerca di un erede maschio…) Ma nonostante queste origini tanto poco “nobili” della Chiesa Inglese, l’Inghilterra diverrà uno dei paesi più importanti e più ricchi in rapporto allo sviluppo su scala non solo europea, ma mondiale del protestantesimo. Tuttavia, accusare Enrico VIII di avere “costruito” una chiesa intorno alle sue avventure amorose, sarebbe ingiusto – o, per lo meno, non completamente corretto. E’ indiscusso che il sovrano abbia dimostrato forti interessi religiosi fin da giovane. La sua replica a Lutero, la “Assertio Septem Sacramentorum”, datata 1521, gli valse il prestigioso titolo da parte del Papa di “Defensor Fidei”. Fin dagli inizi del suo lungo regno (egli aveva cinto la corona d’Inghilterra nel 1509), coadiuvato dal Cardinale Thomas Wolsey, si fece fervido promotore di una riforma della disciplina monastica e di un miglioramento del livello sia teologico che morale del clero d’Inghilterra. La sua richiesta di annullamento di Matrimonio, non era affatto una prassi inusuale secondo le usanze dell’epoca: tuttavia essa giunse come una bruttissima gatta da pelare per il papa in carica, Clemente VII. La prima e legittima moglie del sovrano Inglese era Caterina d’Aragona, figlia di Ferdinando il Cattolico e di Isabella di Castiglia, e zia dell’imperatore, Carlo V. Caterina era stata la moglie del fratello maggiore di Enrico, ed era rimasta vedova. Secondo le usanze del tempo, un nuovo matrimonio con Enrico sarebbe stato proibito, a meno di ottenere una speciale dispensa da parte del papa. Dispensa che comunque era stata concessa. Ma – sempre seguendo una sciagurata consuetudine del tempo – il Re, certamente non innamorato della moglie tanto più anziana di lui – cominciò a circondarsi di amanti e concubine. Ben presto però si pose il problema della successione al trono: tutti i figli maschi avuti da Caterina morirono bambini, sopravvisse solo una figlia, colei che la storia successiva ricorderà come Maria la Sanguinaria. E venne il tempo della menopausa di Caterina: sperare un figlio maschio da lei era ormai impossibile.
Fu il desiderio quasi ossessivo di un erede, o l’invaghimento per una delle sue amanti, la dama di corte Anna Bolena, o furono entrambe le cose a spingere il Re a compiere il passo successivo? Una domanda cui non è dato rispondere. Qui solo ci preme sottolineare che troppo spesso principi e potenti sono prigionieri del loro stesso potere, e che a volte, la storia sa essere inclemente con loro.
Enrico VIII, fiero oppositore della Riforma, difensore della fede, si rivolse al Papa per chiedere l’annullamento del suo matrimonio con Caterina d’Aragona, un matrimonio politico che altri avevano deciso per lui, vietato dalle leggi di Dio e della chiesa (secondo la lettura che a quel tempo veniva data di Lev. XX:21). Ma dall’altra parte non v’era solo Caterina, ma il suo altolocato nipote, quell’imperatore Carlo V, nei cui domini il protestantesimo stava pericolosamente dilagando e al quale egli non riusciva ad opporre se non una debole resistenza, pressato dalle simpatie luterane di molti suoi principi. Invece, nel 1527 egli aveva addirittura saccheggiato Roma, e quando la richiesta d’annullamento giunse a Clemente VII, le sue truppe occupavano ancora gran parte della penisola. Forse il calcolo politico di Clemente VII fu uno degli errori più madornali del papato: egli scelse di accontentare quello che – ai suoi occhi – sembrava evidentemente il pesce più grosso: il risultato fu che la Riforma, lungi dall’essere repressa nei domini imperiali, trovò facile terreno anche nell’Inghilterra di Enrico VII da cui poté con grande facilità diffondersi nelle colonie d’oltremare.
Va detto che Enrico non rispose subito con lo scisma. Egli sottopose il suo caso alle principali Università Europee, che – tutte – riconobbero la piena legittimità della sua richiesta. Fu a questo punto che egli prese la via della separazione da Roma facendosi proclamare, nel 1531, capo supremo della Chiesa d’Inghilterra.
In Italia
Contrariamente a quanto potrebbe essere comunemente pensato, che cioè l’Italia sia una nazione “per natura” Cattolica, l’evangelismo nel nostro paese ha radici profonde e antiche. Anzi, ben prima di Lutero nell’Italia medievale trovarono fertile terreno diversi movimenti di riforma, alcuni dei quali (è il caso dei Francescani) riuscirono a restare all’interno della chiesa – mentre altri, più radicali, giunsero ad una rottura: la più antica delle chiese protestanti oggi esistente, ben radicata nella nostra penisola, origina in questo periodo storico: pur tra mille traversie, la chiesa Valdese è probabilmente l’unico movimento ereticale medievale che il potere – sia ecclesiastico che laico – non riuscì a reprimere completamente e che sopravvive fino ad oggi, anche se forse, il prezzo della sua sopravvivenza fu l’adesione alla Riforma Protestante, da cui uscì sicuramente rivitalizzato, ma anche notevolmente mutato. Il suo fondatore, Pietro Valdo, era un ricco mercante di Lione, che nel 1170 diede vita, in circostanze ormai avvolte nella leggenda, ad un movimento che proponeva un ritorno agli ideali evangelici di povertà e una predicazione incentrata sulla Bibbia – di cui veniva promossa la traduzione nelle lingue del popolo. Malvisti dalla chiesa ufficiale, i “Poveri di Lione” vennero inclusi nella lista dei movimenti scismatici da parte del Concilio di Verona (1184), e condannati come eretici. Il IV Concilio Lateranense, infine, stabilì nel 1215 che il movimento avrebbe dovuto essere represso con la forza. Ma il movimento era già presente in Italia, e fin dalla sua prima diffusione trovò un terreno particolarmente favorevole nell’area corrispondente alle odierne Valli Valdesi (nell’estremo nord del Piemonte), che fu uno dei suoi principali centri, nonché in Calabria (dove però nel 1861 il movimento vennne represso nel sangue). Nel 1532, il sinodo di Chanforan, sancì l’adesione della chiesa Valdese alla Riforma protestante, che ben presto si preciserà nella sua variante calvinista: il più antico movimento di riforma italiano – se non europeo – assurse così al ruolo di chiesa Protestante italiana. Il 1532 è anche l’anno in cui Antonio Brucioli – simpatizzante del Luteranesimo – diede alle stampe la prima traduzione in lingua italiana della Bibbia: mentre i Poveri di Lione/ Valdesi proseguono nel loro cammino e arrivano ad aderire in pieno alla Riforma, la Riforma in Italia ha iniziato a diffondersi per vie autonome, riscuotendo notevole interesse in tutte le classi sociali. I centri dove la Riforma trovò terreno più fertile furono – oltre alle Valli Valdesi, la Repubblicani Venezia (dove videro la luce i primi volgarizzamenti della Bibbia), Ferrara (dove la moglie del duca Ercole II era di fede calvinista), Modena (dove vide la luce la prima traduzione in Italiano di una presentazione della teologia luterana), e – soprattutto – Napoli (sede dei cenacoli di studio della Scrittura Valdesiani, promossi dal riformatore spagnolo, esule in Sud Italia, Juan de Valdés), e la Toscana. Nella nostra regione, la penetrazione delle idee Riformate seguì, se così si può dire, due strade: a Firenze essa attecchì soprattutto nelle classi alte e nelle elite; molti intellettuali della corte di Cosimo I De’ Medici – a cominciare da colui che era stato il suo precettore – erano di fede dichiaratamente riformata, e lo stesso Cosimo fu per diversi anni simpatizzante di tali idee; mentre nella Repubblica di Lucca essa fu soprattutto un fenomeno che coinvolse la popolazione.
L’Evangelismo Italiano però, non poté mai – né prima né dopo Lutero – contare sulla favorevole situazione storica che invece tanto aveva favorito Lutero. Sotto i colpi dell’Inquisizione la Riforma in Italia scomparve, e molti evangelici per non essere incarcerati o uccisi andarono esuli in nazioni – come la Svizzera o l’Inghilterra, ad ingrossare le fila delle comunità protestanti di lingua italiana, come quella di Ginevra, dove il lucchese GIOVANNI DIODATI tradusse per la prima volta tutta la Bibbia direttamente dai testi originali in lingua italiana.
Dopo circa due secoli di repressione – in cui il Protestantesimo si poté dire pressoché scomparso dalla penisola, con l’eccezione delle Valli Valdesi, il XIX secolo e le nuove istanze di libertà connesse con le idee risorgimentali videro una lenta, ma progressiva inversione di tendenza: favorita probabilmente dalle responsabilità che fin dai tempi di Machiavelli venivano attribuite alla chiesa di Roma, in relazione alla divisione dell’Italia. Inoltre, dai tempi delle guerre napoleoniche la Penisola si trovò ad essere oggetto dei viaggi e delle attenzioni di illustri personaggi e di intellettuali provenienti da oltralpe, che assai spesso erano di fede riformata: le prime cappelle protestanti erano non a caso riservate a diplomatici e intellettuali stranieri di stanza negli stati italiani. Nel contempo, nel 1848 lo Statuto Albertino aveva sancito la libertà religiosa ed il riconoscimento dei diritti politici ai Valdesi e agli Ebrei. L’unificazione italiana – realizzatasi sotto il segno della monarchia sabauda – comportò l’estensione dello Statuto agli altri stati della Penisola, dove pertanto poterono sorgere o – meglio – uscire dalla clandestinità, le prime comunità evangeliche di lingua italiana (i due movimenti principali di questi anni, oltre ai Valdesi, furono le Chiese Cristiane Libere, oggi praticamente scomparse o confluite in altri gruppi, e le Assemblee dei Fratelli, iniziate dal nobile fiorentino Piero Guicciardini, lontano discendente del celebre storico coevo del Machiavelli, e tuttora esistenti). Ad esse si aggiunsero nel corso degli anni numerosi altri gruppi, quali i Metodisti, i Pentecostali (il gruppo più duramente perseguitato ed osteggiato durante il ventennio fascista), i Battisti, gli Avventisti del 7° giorno, e altri.
Oggi in Italia sono presenti – e in costante aumento – moltissimi gruppi che si rifanno alla Riforma Protestante; pur fra le difficoltà e le diversità, in qualche caso anche molto vistose, esse si riallacciano ai “soli” riscoperti da Lutero e dagli altri iniziatori della Riforma nel XVI secolo, che rimangono alla base del loro essere e del loro agire: solo Cristo quale centro della vita dei singoli come delle comunità, sola grazia di Dio per essere salvati, sola fede in Cristo quale via per essere resi partecipi di tale dono, sola Scrittura quale base e fondamento del proprio credere, essere ed operare, solo a Dio la gloria per ogni frutto, piccolo o grande, che si riesce a produrre.