1Corinzi 12:22-27
22 Al contrario, le membra del corpo che sembrano essere più deboli, sono invece necessarie; 23 e quelle parti del corpo che stimiamo essere le meno onorevoli, le circondiamo di maggior onore; le nostre parti indecorose sono trattate con maggior decoro, 24 mentre le parti nostre decorose non ne hanno bisogno; ma Dio ha formato il corpo in modo da dare maggior onore alla parte che ne mancava, 25 perché non ci fosse divisione nel corpo, ma le membra avessero la medesima cura le une per le altre. 26 Se un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui; se un membro è onorato, tutte le membra ne gioiscono con lui.
27 Ora voi siete il corpo di Cristo e membra di esso, ciascuno per parte sua.
In questo passaggio della prima lettera di Poalo ai Corinzi, l’unità della chiesa viene paragonata a quella di un corpo, in cui le membra sono diverse tra di loro ma collegate e solidali l’una con l’altra. Un modello che non vale solo per la chiesa, ma per tutti i gruppi umani. Infatti, questa metafora di Paolo ricorda molto quella usata 500 anni prima da Menenio Agrippa per spiegare alla plebe in “sciopero” sull’Aventino l’importanza dell’unità del corpo sociale.
Il fondamento dell’unità descritta da Paolo è la solidarietà, dove il più forte, il più stimato e il più “fortunato” non esclude gli altri, ma al contrario empatizza e si prende cura del più debole, del meno onorevole, di colui che soffre. Questo è certamente un buon inizio, ma non è sufficiente. A lungo andare, infatti, questo modello di unità crea una gerarchia tra chi è considerato forte, onorevole e fortunato, e gli altri che invece non lo sono, dove i primi sono coloro che danno aiuto e compassione, e gli altri sono quelli che ricevono perché non hanno nulla da dare a chi ha già più di loro. Il modello di corpo, allora, fallisce, perché quel modello prevede che tutte le membra contribuiscano alla salute del corpo intero, e quindi tutti siano in posizione di dare e ricevere.
Perché questo modello di corpo sia efficace, bisogna che sia accompagnato dalla consapevolezza che nessuno è costituzionalmente debole o povero, ma la sua povertà e debolezza è una percezione sociale in rapporto a un certo modo di inquadrare i valori e le possibilità degli esseri umani. Una volta presa questa consapevolezza, bisogna tentare di mettere in discussione i simboli e le strutture sociali e gerarchiche della chiesa o del gruppo, in modo da includere pienamente anche chi è percepito come più debole o più povero, dandogli la possibilità di contribuire attraverso i suoi doni che le strutture e le gerarchie precedenti non riuscivano a vedere.
Nella storia di Davide e Golia (1 Samuele 17), Davide è percepito come più debole rispetto a Golia (data la grande differenza di statura), ma questa debolezza appare ancora più grave quando Saul lo riveste con la sua pesante armatura. Quando invece Davide è liberato dall’armatura, la sua debolezza non appare più tale, perché alla mancanza di muscoli e armi pesanti, Davide contrappone un nuovo modo di combattere basato sull’agilità e la precisione. Il debole Davide mostra così che, fuori dalle “armature” imposte dalla società, la debolezza è solo una diversità, e in quanto tale una ricchezza.
Il mio augurio, per le famiglie, la chiesa e la società, è che impariamo a guardare con sospetto alle strutture e gerarchie perpetrate dalla tradizione, e a guardare con nuovi occhi a tutta la bellezza della varietà non solo del genere umano, ma di tutta la creazione, per raggiungere davvero quel modello di unità corporale voluto da Paolo, dove tutti dialogano e contribuiscono attorno al tavolo dell’uguaglianza e della comunione.
Saverio Scuccimarri (pastore avventista)